Leon Grinberg, in un suo articolo di qualche anno fa[1] poneva la seguente domanda: “Lo psicoanalista ha paura del transfert?”. Egli ipotizzava che la grande varietà di teorie psicoanalitiche relative a questa dimensione del rapporto interpersonale risiedesse nel timore che gli analisti provano per i suoi ‘pericoli’, in particolare rispetto al transfert ‘negativo’, che espone il terapeuta ad esperienze faticose e spesso dolorose in quanto riattualizzano, nel rapporto del qui-ed-ora in seduta, pregresse ed antiche dinamiche di rapporto con le proprie figure genitoriali.
Che una simile domanda, ovviamente provocatoria, possa essere lanciata ma soprattutto raccolta nell'odierno assai vasto orizzonte psicoanalitico, testimonia della sopravvivenza di un antico retaggio di atteggiamenti e posizioni più o meno ufficiali rispetto alla centralità del fenomeno transferale in psicoanalisi, permeati da un timore di fondo. Esso, nonostante lo sviluppo della teoria - o forse sarebbe meglio dire ‘delle attuali teorie’ psicoanalitiche - sembra continuare ad aleggiare nella prassi comune della terapia psicoanalitica: il coinvolgimento transferale tra paziente e terapeuta rappresenta (ancora) qualcosa di insidioso, che si sottrae all'ideale di una psicoanalisi quale disciplina scientificamente intesa (status peraltro mai raggiunto dalla stessa, né in realtà raggiungibile, essendo la sua natura intrinseca situabile su un piano ermeneutico e narrativo piuttosto che storico e scientifico).[2]
L'attenzione sul transfert, e sul reciproco movimento controtransferale, è in realtà l'anima stessa del trattamento psicoanalitico, ciò che lo distingue e lo differenzia da altri interventi di natura psicoterapeutica variamente caratterizzati in senso più o meno direttivo. Ma se negli ultimi decenni lo si è sempre più identificato come reale motore della cura analitica, non sempre in precedenza esso ha avuto lo stesso incondizionato riconoscimento nell'ambito della psicoanalisi. Fino alla metà del secolo scorso, infatti, soprattutto riguardo al controtransfert, il riferimento centrale è stato quello della concezione freudiana classica che lo ha descritto come un ostacolo più che uno strumento di conoscenza del rapporto analitico. In seguito è aumentata negli analisti la consapevolezza della imprescindibilità dei vissuti controtransferali nella loro costruzione di una ‘teoria’ del paziente che potesse comprendere aspetti di una maggiore condivisione emotiva e affettiva di fondo.
Ma andiamo per gradi e reimmergiamoci in ciò che Freud per primo osservò, all'inizio della sua carriera terapeutica insieme a Joseph Breuer, quando da ipnotista trattava col ‘metodo catartico’ le giovani isteriche di fine Ottocento. Negli Studi sull'isteria (1895) Freud introduce l'idea del transfert come ‘falso nesso’ secondo uno schema di sostituzione dell'oggetto e proiezione del desiderio insoddisfatto originario (una paziente prova il desiderio che l'analista le dia un bacio; scoprirà poi che ha già provato e represso quello stesso desiderio nei confronti di un altro uomo…). Così Freud: “Dapprima era emerso nella coscienza della paziente il contenuto del desiderio, senza i ricordi delle circostanze accessorie che avrebbero permesso di localizzare questo desiderio nel passato. Questo desiderio, in base alla coazione ad associare che dominava la coscienza, era stato collegato con la mia persona e in seguito a questa mesalliance - che io chiamo ‘falso nesso’ - s'era destato lo stesso affetto che, a suo tempo, l'aveva costretta a rifiutare quel desiderio illecito…”[3]. In queste righe è racchiuso il concetto freudiano della dinamica transferale; grazie al suo acume la concezione e la comprensione della psicopatologia nevrotica subiscono una accelerazione formidabile con l'innesto delle dinamiche transferali nel tronco della psichiatria clinica di fine secolo e delle sperimentazioni della scuola francese sulle isteriche della Salpetrière. Ma è il carattere ‘pericoloso’ del transfert per l'analista a rappresentare un motivo di attenta e prudente prassi terapeutica che Freud in primis si sforza di comunicare ai propri adepti; così scrive in una missiva a O. Pfister nel 1910: “Per quanto riguarda la traslazione, è una vera e propria croce. Ciò che nella malattia agisce con volontà propria e indomabile - e a causa del quale abbiamo abbandonato tanto la suggestione indiretta quanto la suggestione ipnotica diretta - non può essere eliminato completamente neanche dalla psicoanalisi, ma solo contenuto e i suoi residui si manifestano nella traslazione (…). Il paziente va tenuto in uno stato di astinenza, di amore insoddisfatto, ma questo naturalmente non è sempre del tutto possibile. Quanto più lei gli permetterà di trovare amore, tanto più raggiungerà i suoi complessi, ma tanto minore sarà il successo finale, poiché il paziente si priva degli appagamenti di complessi abituali solo perché può scambiarli con i risultati della traslazione. Si otterrà forse la guarigione, ma non il necessario grado di autonomia, né la garanzia contro le ricadute”.[4]
Freud costruisce quindi una griglia concettuale entro cui collocare dinamiche arcaiche e magmatiche di natura proiettiva, quella prima cornice teorica appunto che servirà a contenere in un discorso coerente e affascinante l'esplicarsi dei travagli affettivi dal bambino all'adulto nel loro rapporto con le figure primarie di accudimento. Così l'attenzione crescente per i fenomeni transferali porta Freud a scrivere qualche anno dopo: “Tutti i conflitti devono essere affrontati nell'ambito della traslazione”.[5]
Ma di ‘quale’ traslazione stiamo parlando?
Potremmo dire che la stessa psicoanalisi nasce nel momento in cui il suo fondatore rileva come pervasiva e fondante nei rapporti interpersonali la presenza di fenomeni di natura transferale. Tutto è transfert - sembra l'illuminazione freudiana, la verità ultima che funge finalmente da decodificatore delle intricate psicologie umane e delle contraddizioni inerenti il perenne conflitto tra anima e corpo.
In questa prima accezione, il transfert (ubertragung) può essere definito in termini di rapporto interpersonale come lo spostamento inconscio nello spazio e nel tempo dell'oggetto del desiderio, quantum affettivo che dopo essere stato indirizzato verso una persona importante del proprio passato cambia rotta e si collega ad un'altra persona nel presente. Il carattere specifico di ‘falso nesso’ consiste proprio nel fatto che il desiderio in precedenza diretto verso una figura investita affettivamente venga ora diretto sulla persona del terapeuta, rappresentando una ‘riedizione’ di impulsi e fantasie appartenenti ad un altro ‘spazio-tempo’, quella ‘dimensione infantile’ dello sviluppo psichico individuale in cui prendono forma la struttura di personalità e il carattere dell'individuo.
In seguito, quando Freud sviluppa le sue tesi sulla dinamica inconscia dei processi mentali del sogno, il transfert assume una connotazione sempre più intra-psichica che ne porterà ad approfondire la rete sottostante di associazioni e significati inconsci e soggettivi. Non si coglie cioè il senso di un pensiero cosciente finchè non si illuminano le diverse modalità secondo cui esso opera come una ‘copertura’ di forze psichiche inconsce, allo stesso modo in cui un ricordo o un sogno possono rappresentare il simbolo, l'immagine sostitutiva di una catena associativa inconscia ben più estesa ed articolata. Questa concezione di traslazione ‘intrapsichica’ può essere esemplificata osservando il rapporto interno tra diverse strutture psichiche, ad es. quello tra Es e SuperIo, come spiega J.Leary[6]: “…Come riscontriamo regolarmente in analisi, una voce superegoica funge spesso da ‘copertura’ per un desiderio o un impulso aggressivo arcaico, un tentativo di reprimere o mascherare un desiderio o un'ira emergenti, ma anche un mascheramento nel senso che costituisce un rappresentante cosciente del represso. La voce superegoica, come intuì Freud, trae la sua dura intensità dall'Es e l'intensità è reciproca e dinamica. Non ci sarebbe bisogno di essa se non ci fossero desideri o impulsi aggressivi intensi da contenere. Quindi si potrebbe dire che tra l'Es e il SuperIo di una persona ha luogo una traslazione intrapsichica; sebbene il compito del SuperIo sia quello di reprimere l'Es, proprio nel rivestire questo ruolo il SuperIo diventa ‘la copertura’ dell'Es, suo artefatto e rappresentante.[7] Il rilievo della traslazione intrapsichica consiste nel fatto che la coscienza in generale funga da copertura all'inconscio; è stata convertita in artefatto e rappresentante di desideri, fantasie e impulsi aggressivi inconsci.”
Negli scritti del periodo più maturo dedicati al transfert, Freud sembra inoltre accentuare il carattere di ‘ripetizione’ insito nel movimento transferale: quando si mantiene qualcosa al di fuori della coscienza si deve poi inconsciamente agirlo. La ripetizione che caratterizza il transfert è dunque il ritorno del rimosso in forma inconscia: “Il paziente non si libererà, finché rimane in trattamento, da questa coazione a ripetere; e alla fine ci si rende conto che proprio questo è il suo modo di ricordare”[8]. In realtà questo ‘ricordare’ consiste in una rappresentazione inconscia mirante a ri-attualizzare relazioni del passato, allo scopo di rendere il presente dotato di una possibile ‘comprensibilità’, cioè dotarlo di significato, di un ‘senso’, anche se ormai antico, obsoleto e spesso problematico per l'individuo stesso. Come ci ricorda Leary: “L'istanza fondamentale di ogni transfert è che l'analista, l'altro, condivida un mondo, quello del paziente, a cui sono stati assegnati significati particolari (…) Le miriadi di istanze avanzate dalle traslazioni non sono semplicemente richieste d'amore: la forma di amore che si esige è che l'analista percorra insieme al paziente le vie traverse di un mondo tutto particolare.”[9]
Ma se Freud si accorse che il paziente ‘trasferiva’ suoi contenuti interni in direzione del terapeuta, analogamente constatò che anche in quest'ultimo insorgevano durante il trattamento delle reazioni più o meno intense suscitate dalle comunicazioni e dagli agiti presentati dal paziente in seduta: questo movimento parallelo venne identificato e descritto come ‘controtransfert’. Freud ne parla per la prima volta in modo esplicito in una lettera del 1909 all'allora giovane allievo ‘prediletto’ C.G. Jung, utilizzando il termine di controtraslazione (Gegenubertragung); il riferimento è ad una paziente di Jung, Sabina Spielrein, con la quale il primo aveva avuto una relazione ‘non solo psicoanalitica’: “Esperienze del genere, sebbene dolorose, sono necessarie e difficilmente ci si può sottrarre ad esse. Solo dopo averle vissute si conoscono la vita e ciò con cui si ha a che fare. Quanto a me, non ci sono cascato del tutto, ma alcune volte mi ci sono trovato assai vicino e ho avuto ‘a narrow escape’. Io credo che soltanto le dure necessità in mezzo alle quali il mio lavoro si è svolto e i dieci anni di ritardo rispetto a Lei, prima che giungessi alla psicoanalisi, mi hanno preservato da esperienze analoghe. Ma non fa nulla. Ci si fa in tal modo la necessaria pelle dura, si domina la controtraslazione in cui ci si viene a trovare ogni volta, e s'impara a spostare i propri affetti e a piazzarli in modo opportuno.”[10]
Tali ‘reazioni’ interne al terapeuta vengono viste come prodotti indesiderati della sua area nevrotica non elaborata, che riducono ed ostacolano quindi una più adeguata percezione analitica. Riprendendo la definizione di F.Stekel, uno dei suoi primi seguaci, Freud riconosce ogni rimozione non risolta dal medico come una “macchia cieca” nella relazione analitica, che agisce soprattutto in relazione a sentimenti di attrazione-innamoramento suscitati dal paziente nel terapeuta. Ne consegue quindi che la preoccupazione primaria è quella di non cedere a tali impulsi ‘mascherati’ che sostituiscono nella relazione attuale il terapeuta al genitore edipico. La concettualizzazione freudiana rimarrà anche in seguito coerente con questa concezione ‘ristretta’ del fenomeno controtransferale, considerato sostanzialmente quale espressione della conflittualità inconscia non risolta dell'analista in risposta alle sollecitazioni del materiale prodotto dal paziente.
Una prima variazione circa la concezione del controtransfert rispetto alla visione freudiana viene proprio da C.G. Jung, che lo utilizza in modo più ampio come strumento imprescindibile della propria tecnica terapeutica, anche se nei suoi scritti la parola controtransfert viene usata pochissime volte. Tuttavia è evidente come il suo ruolo diventi di primo piano nella visione junghiana che concepisce il terapeuta come ‘guaritore ferito’, che si sintonizza con la psiche sofferente del paziente proprio in virtù della capacità di confronto con le sue stesse aree di sofferenza. Inoltre, passaggio fondamentale, Jung non ritiene che il transfert possieda necessariamente una natura ‘sessuale’ e quindi sia solo una riedizione di rapporti edipici in chiave attualizzata proiettata sul terapeuta, bensì possa anche essere espressione di altri vissuti e tendenze psichiche diverse e più complesse: “Da qualsiasi lato si rigiri il problema la terapia non può essere altro che il prodotto di una mutua influenza, in cui sia l'intero essere del medico che quello del paziente giocano la propria parte.”[11] Centrale nella sua concezione è quindi l'attenzione sulla relazione terapeuta-paziente alla luce delle dinamiche archetipiche sottostanti che dirigono il percorso verso l'individuazione e sul conseguente necessario coinvolgimento dei partners analitici in un ‘mixtum compositum’[12] dove è però fondamentale, ai fini dell'esito della cura, approdare alla ‘risoluzione del transfert’ e quindi ad una restituzione delle proiezioni del paziente.
Fino all'inizio degli anni '50 del secolo scorso la concezione del controtransfert rimane sostanzialmente quella delimitata da Freud; va in quegli anni però estendendosi l'interesse per una nuova visione ‘allargata’ del fenomeno transferale (e per una nuova parallela visione del terapeuta), che producono una sostanziale virata rispetto alla concezione freudiana del controtransfert come ostacolo nella relazione analitica. Soprattutto due autori, Paula Heimann (allieva di M.Klein) e Heinrich Racker, sviluppano una visione del controtransfert centrando l'attenzione sui sentimenti e i vissuti emotivi del terapeuta in seduta e valorizzando tali aspetti quale suo strumento conoscitivo primario nei confronti del mondo interno del paziente.
Il controtransfert - sostiene la Heimann[13] - non è altro che il transfert dell'analista verso il suo paziente, ciò che consentirà agli analisti dei decenni successivi di poter parlare in realtà di un co-transfert che si svilupperebbe tra i due poli della relazione, avente preminente valore conoscitivo; il terapeuta non deve dunque difendersi da questi sentimenti, ma al contrario deve rimuovere gli ostacoli che egli stesso oppone alla percezione del proprio transfert e per fare questo deve poter vivere liberamente e senza pregiudizi le proprie emozioni e quelle verso il paziente. L'unica differenza risiede allora nella ‘quantità’ dei sentimenti che paziente ed analista esperimentano reciprocamente, fermo restando che il rapporto tra essi è per definizione ‘asimmetrico’, cioè presuppone una maggiore dipendenza del paziente verso il terapeuta che non il contrario (almeno in teoria, i sentimenti transferali del paziente ‘dovrebbero’ essere più intensi e indiscriminati rispetto a quelli del terapeuta).
Racker dal canto suo sembra proporre una versione altrettanto ‘allargata’ del controtransfert quando afferma che: “Il controtransfert è, in larga misura, una risposta emozionale al transfert, e come tale può indicare all'analista ciò che sta avvenendo nel paziente in rapporto all'analista”. E inoltre: “Se l'analista è ben identificato col suo paziente e ha un grado di rimozione minore di quello del paziente, allora i pensieri e i sentimenti che emergeranno in lui saranno esattamente quelli che emergono nel paziente, e cioè il rimosso e l'inconscio.”
Egli differenzia inoltre il controtransfert in due forme particolari sulla base dei processi di identificazione ad essi sottostanti: secondo Racker, nell'identificazione ‘concordante’ l'analista si identifica con l'Io e con l'Es del paziente, mentre nell'identificazione ‘complementare’ l'analista si identifica con gli oggetti interni del paziente. Ciò che ne deriva è una assimilazione della prima forma con l'empatia, quindi con sentimenti sostanzialmente positivi che il terapeuta prova nei confronti del paziente; nel secondo caso invece il terapeuta sarebbe sollecitato dal paziente ad identificarsi con quegli aspetti di sé conflittuali e problematici, che rappresentano la sua ‘alterità interna’, in modo che è portato ad alimentarne i comportamenti svalutativi e distruttivi.
La posizione di Racker , con la sua ulteriore differenziazione in ‘concordante’ e ‘complementare’, si spinge quindi a postulare una specie di ‘corrispondenza biunivoca’ tra pensieri e sentimenti del paziente e quelli vissuti dall'analista, sia positivi che negativi, ciò che altri autori più recenti - tra essi J.Sandler e M.N.Eagle, cui accenneremo più oltre - hanno giustamente sottolineato in modo critico.[15]
La concezione freudiana del terapeuta-specchio, neutrale e distaccato spettatore delle vicissitudini affettive che travagliano il mondo interno del paziente, lascia progressivamente sempre maggiore spazio al ruolo ‘attivo’, da reale co-protagonista, del terapeuta, che risponde a sua volta elaborando internamente le sue stesse turbolenze emotive-affettive da quelle generate.
Intanto già M.Klein aveva ampliato ulteriormente la concezione dei fenomeni transferali retrodatandoli dalla loro originaria caratterizzazione ‘edipica’ (l'analista che deve difendersi dall'amore transferale…) alle relazioni oggettuali nei primi due anni di vita. Ciò pone le basi per una visione del transfert-controtransfert in cui assumono un'importanza centrale quei vissuti primitivi di ‘attaccamento’, ‘holding’ e di ‘fiducia di base’ che saranno poi ampiamente descritti da autori quali J.Bowlby[16], D.W. Winnicott[17] e M.Balint.[18]
Il cambiamento nella dinamica di transfert con il paziente diviene così, nell'ottica di questi autori, una traccia per poter ricostruire la successione delle sue fasi evolutive nel rapporto con le figure primarie di accudimento. E l'analista si identifica sempre più con la funzione genitoriale di ‘holding’, che esprime l'attenzione e le cure materne rivolte al corpo e alla psiche del neonato in una fase preverbale e perciò di fondamentale importanza ai fini della sua traducibilità o meno nel linguaggio verbale tipico della cura psicoanalitica. Il paziente ripete così nel transfert i suoi bisogni primari di accudimento dirigendoli verso l'analista e sollecitandolo a prendersene cura sulla base di un modello di attaccamento o imprinting affettivo che si ripete in ogni tipo di legame interpersonale futuro che il soggetto instaura. Come dice Borgogno[19]: “L'analisi permetterà di regredire a stadi di non integrazione alla ricerca dei traumi precoci che deformarono il Sé, offrendo le condizioni per nuove integrazioni”.
Da questo punto in poi, aumenta la consapevolezza da parte degli psicoanalisti che le interpretazioni, da sole, non riescono a far superare al paziente le difese che hanno deformato il suo Sé; fondamentale è l'ambiente e il setting, in quanto primo strumento terapeutico, assume la funzione di contenimento del paziente ed offre uno ‘spazio transizionale’ entro il quale poter rimettere in moto quei processi di integrazione psichica in una modalità corretta ed adeguata alle sue necessità, dosando vicinanza e distanza, gratificazione e frustrazione. Quindi il controtransfert sarà caratterizzato in questa nuova cornice da vissuti spesso preverbali che lo stesso paziente non riesce a decodificare né riconoscere nella propria attuale dimensione affettiva, ciò che stimola il terapeuta a sentirsi così come quel bambino che il paziente si porta dentro, con le sue angosce e le sue paure senza nome.
Una posizione decentrata e per certi versi ‘reazionaria’ rispetto agli sviluppi nella concezione del controtransfert che stiamo osservando viene invece da J. Lacan, che ribadisce come la psicoanalisi sia fondata espressamente sulla parola ma anche sul silenzio dell'analista in risposta ai sentimenti transferali del paziente nei suoi confronti. L'analista che risponde alle richieste del paziente con i propri sentimenti collocherebbe infatti le domande nel registro dell'immaginario e non del simbolico e ciò non favorirebbe una evoluzione dalle sue posizioni infantili di richiesta di gratificazione immediata. Lacan pertanto, mantenendosi in linea con la lezione freudiana, raccomanda piuttosto un atteggiamento di prudente distacco nei confronti dei sentimenti del paziente, anche se ciò può condurre ad un atteggiamento ostile e rancoroso nei confronti del terapeuta e determinare così un transfert negativo. Ma è soprattutto l'accento posto da Lacan sulla impersonalità dell'analista, il suo essere un anonimo significante, cioè Altro e luogo simbolico del desiderio, che entra in aperta collisione con la concezione bowlbiana-winnicottiana di un analista ‘materno’, che accudisce e fornisce protezione.[20]
Nell'ultimo ventennio, dopo il definitivo declino dell'immagine dell'analista ‘specchio’ (un ‘osservatore’ che si voleva neutrale rispetto alle dinamiche di volta in volta innescate dai conflitti interni del paziente, secondo una concezione del rapporto paziente-analista dove permaneva uno squilibrio evidente tra il ‘tutto pieno’ emotivo del primo e il ‘tutto vuoto’ del secondo) - il post-freudismo ha portato in scena concezioni sempre più articolate del rapporto interpersonale, in cui lo strumento principe a disposizione del terapeuta è proprio il suo controtransfert, col quale egli risponde e ‘reagisce’ alle stimolazioni transferali del paziente.[21] Anzi, si potrebbe a questo punto parlare di ‘co-transfert’ per indicare l'ampiezza e la profondità dei vissuti che vengono elicitati nel terapeuta e la facilità con la quale questi attribuisce all'influenza del paziente le sue proprie emozioni o i suoi sentimenti in seduta e fuori. A questo riguardo sono però opportune alcune osservazioni critiche, che in tempi più recenti diversi autori, tra cui J. Sandler, M. Gill, E.B. Spillius, M.N. Eagle ed altri, hanno ribadito ed ampliato a proposito del rischio di un utilizzo ‘indiscriminato’ dello strumento controtransferale, che testimonierebbe di un rovesciamento concettuale parimenti dannoso rispetto alle vecchie posizioni dell'analista-specchio.
Riporta Gabbard[22] che già la Klein negli anni '50 si preoccupò della possibilità che la concezione del controtransfert proposta dalla Heimann potesse concedere all'analista il permesso di accusare il paziente delle sue stesse difficoltà controtransferali. Più recentemente, mentre Spillius[23] ha sollevato il dubbio che l'analista possa confondere i propri sentimenti con quelli del paziente, e sottolineando quindi la necessità che si resti sempre consapevoli di questa possibilità, Sandler[24] indica il rischio che si finisca per assumere una ‘corrispondenza uno-a-uno’ tra gli stati mentali dell'uno e quelli dell'altro. Anche Gill avverte che: “Un grosso pericolo è che l'analista, considerando i propri sentimenti come qualcosa che, necessariamente, gli è stato “messo dentro” dal paziente, possa mancare di riconoscere il contributo offerto dalla sua stessa personalità. Questo punto di vista, di fatto, non è che una variante della concezione del ruolo dell'analista in quanto schermo bianco.”[25] Infine Eagle, in un articolo recente sull'argomento, scrive: “…Nella loro reazione contro il modello dello schermo bianco della situazione analitica e presumibilmente nella loro concettualizzazione della relazione terapeutica come un processo interattivo bipersonale, molti teorici psicoanalitici contemporanei (…) hanno finito essenzialmente per produrre una versione nuova e più sottile dell'analista come schermo bianco e una versione nuova di una psicologia unipersonale, con l'analista, anziché il paziente, che adesso viene visto come l'oggetto principale di attenzione (…) Sarebbe troppo facile per l'analista pensare di poter mettere le mani su un dogma o su una formula che gli dica che le reazioni che egli sta provando gli sono state messe dentro dal paziente e che queste reazioni sono un riflesso della sua identificazione con gli oggetti interni del paziente (…) Cerchiamo di non dare mai per scontato che tutti i sentimenti e i pensieri che emergono nella nostra esperienza siano sempre e soltanto un riflesso lineare di ciò che sta accadendo nel mondo interno del paziente. Il mantenimento di una piccola quota del vecchio punto di vista sul controtransfert, secondo il quale esso può anche essere visto come una barriera alla comprensione, credo che continui a rimanere auspicabile.”[26]
Alla fine di questo breve excursus sui concetti di transfert-controtransfert, all'attuale ‘stato dell'arte’ e alla luce delle conclusioni e delle recenti posizioni in merito da parte di diversi autori della scena analitica contemporanea, osserviamo come la nuova concezione dei fenomeni di tranfert e controtransfert in ambito psicoanalitico abbia definitivamente spostato l'equilibrio a favore dell'attenzione focalizzata sul mondo interno del terapeuta e sulla intersoggettività del rapporto. Il rischio però che i vissuti e i sentimenti del terapeuta vengano assunti in modo univoco e prestabilito quale mera ‘copia’ delle esperienze interne del paziente sussiste e probabilmente è determinato dalla nostra stessa originaria concezione dell'inconscio quale dimensione dove i confini e le barriere tra individui si dissolvono per fare emergere strutture basali e onnicomprensive di connessione e significato.
Nel rapporto analitico la dimensione più profonda dello scambio emotivo sembra perdere via via dei riferimenti visibili e oggettivabili per confluire in una sempre maggiore ‘comunione inconscia’ tra analista e analizzato, dove parti sane e malate di entrambi possono entrare in risonanza con uguale potere terapeutico, se ovviamente il terapeuta è in grado di immergersi nei propri ‘gironi infernali’ per poi risalirne senza eccessivo sforzo. La ‘gestione’ di tale processo spetta indubbiamente al terapeuta, anzi proprio questa sua relativa capacità di muoversi con maggiore abilità all'interno di configurazioni e scenari estremizzati della esperienza psichica sarebbe ciò che primariamente distingue e differenzia le due polarità della coppia analitica e la stessa azione terapeutica si identificherebbe con la possibilità di trasmissione di tale accresciuta capacità di dinamismo psichico al paziente. Allora proprio la capacità del terapeuta di ‘mantenere la rotta’ - cioè la propria posizione analitica, in uno scenario interiore attraversato da correnti affettive magmatiche e tempeste emotive amplificate dalla risonanza con i vissuti conflittuali del paziente - condurrà entrambi verso una condizione di maggiore integrazione dei propri aspetti-oggetti interni, ciò che produrrà una vitale armonizzazione del mondo rappresentazionale interno del paziente ed una acquisita migliore capacità di fronteggiare in futuro nuovi stati di insorgente malessere psichico.
Riprendendo quindi a questo punto la domanda iniziale di Grinberg, possiamo forse rispondere che la paura dello psicoanalista di fronte al fenomeno transferale (o, se vogliamo, co-transferale) esiste ed è quella stessa che si manifesta quando nella vita quotidiana il rapporto con ‘un altro’ si approfondisce ed emergono dinamiche che ci coinvolgono più profondamente. Ma è proprio questo ricreare nella stanza di analisi, pur nella cornice immobile ed ‘ufficiale’ del setting, una relazione viva e aperta al cambiamento, con le sue crisi e i suoi momenti ispirati, che rende l'esperienza analitica unica e irripetibile.
F. M.
Note.