Homo sum, humani nihil a me alienum.
(Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo)
Publio Terenzio Afro, Heautontimoroumenos (165 a.C.)
Il XX appena trascorso è stato il secolo delle grandi scoperte scientifiche e della rivoluzione del pensiero nelle sue più varie espressioni. Dalla fisica quantistica alla logica dei predicati, dallo strutturalismo all'esistenzialismo, dalla psicoanalisi alla cibernetica, alla biologia molecolare, alla genetica; il mondo, quale era conosciuto fino a metà dell'Ottocento, ha subito una accelerazione tale in termini di progresso socio-culturale e tecnico-scientifico, da risultare un organismo nuovo, complesso, dagli equilibri interni-esterni estremamente sensibili (il famoso 'battito d'ali della farfalla in Amazzonia che provoca un uragano dall'altra parte del pianeta'). Parallelamente, e paradossalmente, un tale enorme sviluppo della conoscenza ha apportato all'individuo anche la consapevolezza di essere abitato e rappresentato da una 'molteplicità' di istanze interiori, di entità psichiche differenti e variamente stratificate, finanche da una moltitudine di Io diversi e spesso contrapposti, un mosaico eterogeneo di elementi identitari che sono confluiti nell'immagine attuale dell'uomo moderno.
Un tempo le religioni e il loro scenario di trascendenza svolgevano un ruolo cruciale nell'assegnare all'uomo precisi ambiti esistenziali nel rispetto di determinati valori, delimitando e connotando le sue esperienze in termini di giusto e proibito, di bene e male, semplificando così il suo orizzonte di senso e sorreggendolo nella difficile arte della fede e della dottrina. L'altro-da-sé, così come lo straniero, sono stati infatti da sempre identificati col 'nemico', come elementi cioè di destabilizzazione di un ordine pre-costituito e quindi come antitetici rispetto ad un concetto di gruppalità coesa e interdipendente; nella sfera religiosa in genere essi sono stati identificati quale espressione diretta del 'male', con il riferimento ad un pantheon variabile di entità demoniche. Il 'diavolo' cristiano non è che la figura più recente di una lunga tradizione iconografica che affonda le sue radici (per quanto ad oggi è dato saperne) nelle religioni di circa 3500 anni prima di Cristo proprie dell'area dell'antico medio-oriente iranico fino a quella dell'antico Egitto[1]. L'etimologia del nome Satana ha infatti radici antichissime: era shaitan o sheitan per i sumeri, suthek per gli assiro-babilonesi, set-an per gli egizi, poi Sat-an per gli ebrei, e tale figura è identificata costantemente con i concetti appunto di 'nemico', 'avversario', 'ostacolo'[2].
La secolarizzazione e la crescente laicità del pensiero hanno portato la società ad un progressivo allontanamento dal credo e ad una crescente intolleranza verso la morale cattolica e le sue istituzioni. Ma il cambiamento non è stato senza conseguenze per gli individui, che nella attuale deriva dell'homo spiritualis hanno fatto la tragica esperienza dell'assenza, del vuoto, del nulla, laddove al disorientamento esistenziale e alla crisi di valori si è affiancata nell'ultimo secolo l'alienazione derivante dalle condizioni di lavoro ripetitivo e seriale delle fabbriche e in seguito il conformismo di massa e la cultura consumistica, che rende 'liquide'[3] le nostre esistenze. Straniero a sé stesso, l'uomo moderno non può che piangere un paradiso perduto, una Madre Terra violata, un'Ultima Thule immaginifica e oltremondana. Egli avanza, strutturalmente e irreparabilmente scisso, separato e distante non solo dall'Altro di lacaniana memoria, ma anche da quel sé stesso più intimo, dalla sorgente profonda del suo senso identitario, perduto tra spots pubblicitari e indotti desideri artificiali, tra dover essere e apparire. Conseguenze non indolori della 'complessità' e del 'progresso', potremmo aggiungere. In realtà, la tematica della alterità, declinata nelle sue varie forme, ha accompagnato la storia dell'Occidente fin dal principio, essendo speculare e consustanziale allo stesso concetto di identità: soggettiva, sociale, culturale, nazionale, etc. …
Per rintracciare un topos inequivocabile di questa 'coincidentia oppositorum' basti pensare alla cultura greca classica ed alla istituzione dell'ospitalità, in cui il termine 'hospes' è al contempo - come oggi per l'ospite - sia colui che ospita che l'ospitato, quindi sia il padrone di casa che l'altro, l'estraneo[4]. La necessità però di far convivere entrambi sotto lo stesso tetto diviene non solo temporanea ed occasionale, come nel caso dell'ospite, ma costante e definitiva nel discorso soggettivo, dove la 'propria' alterità costituzionale (che, ricordiamolo, è l'aspetto complementare della tendenza umana verso una identità stabile e riconoscibile nel tempo ed anche, almeno in parte, il prodotto di tale infinita auto-costruzione), impone un incontro-scontro sempre rinnovato, perenne, tra le istanze egoiche ed anegoiche, tra coscienza ed inconscio, in una dialettica interiore che, come sappiamo, solo raramente ci è dato cogliere nelle sue manifestazioni dirette, ma spesso solo a posteriori, quando la riflessione si incarica di mediare tra ragione, sentimento, emozioni, desideri.
In particolare, la crisi del concetto di unità della persona coinvolge tutto il pensiero occidentale degli ultimi quattro secoli, a partire da Cartesio, dove l'idea di persona e di un Io che esiste 'in quanto soggetto pensante' impone un ripensamento rispetto alle categorie metafisiche classiche in cui la natura intima dell'uomo, il suo senso di identità, la sua essenza, venivano riferite all'anima, dono di Dio che preesiste e sopravvive all'uomo stesso, in un'ottica di trascendenza. Il dualismo cartesiano spacca il soggetto in res cogitans e res extensa e lo introduce, attraverso la funzione dubitativa del pensiero, ad un percorso di progressiva emancipazione dalla metafisica tradizionale. Ma il sentimento moderno di una intima alterità costitutiva dell'essere umano, declinato nella sua più quotidiana e immediata consapevolezza, ce lo restituisce già questo componimento di François Villon, il poeta francese vissuto nella metà del XV secolo, ladro, vagabondo ed emarginato (e qui l'estraneità del soggetto pubblico fa pendant con l'alterità del soggetto privato), che riportiamo per esteso. Si intitola “Ballade des menus propos” (La ballata delle cose da niente), scritta nel 1458[5]:
So vedere una mosca nel latte, / So riconoscere l'uomo dall'abito /
So distinguere l'estate dall'inverno / So giudicare dal melo la mela /
So conoscere dalla gomma l'albero, / So quando tutto è poi la stessa cosa, /
So chi lavora e chi non fa un bel niente, / So tutto, ma non so chi sono io.
So valutare dal colletto la giubba / So riconoscere il monaco dall'abito, /
So distinguere il servo dal padrone, / So giudicare dal velo la suora, /
So quando chi parla sottintende, / So conoscere i folli ben pasciuti, /
So riconoscere il vino dalla botte, / So tutto, ma non so chi sono io.
So distinguere un cavallo da un mulo, / So giudicare il carico e la soma, /
So chi sono Beatrice e Belet, / So fare il tiro per vincere ai punti, /
So separare il sonno dalla veglia, / So riconoscere l'errore dei Boemi, /
So che cos'è il potere di Roma, / So tutto, ma non so chi sono io.
Principe, so tutto in fin dei conti, / So vedere chi sta bene e chi sta male, /
So che la Morte porta tutto a compimento, / So tutto, ma non so chi sono io.
Se poi in Locke e Hume si delineano i primi concetti di coscienza e di sé (Self), svincolati dal riferimento alle essenze metafisiche e collegati al vissuto esperienziale individuale ed alla memoria in quanto 'collante' dell'identità soggettiva, è solo nella seconda metà del XVIII secolo che il concetto di soggetto viene precisato con maggiore chiarezza, quando l'illuminismo kantiano affronta il problema, seppure in forma aprioristico-trascendentale, di un Io-soggetto quale fondamento primario dell'esperienza. Dopo il movimento romantico, che riprendendo Rousseau critica lo statuto di una soggettività edificata unicamente sulla base della coscienza razionale, l'idealismo hegeliano identifica il soggetto con la sua autocoscienza, ma tale centralità viene attenuata dalla necessità di una legittimazione derivante dall'esterno, dalla società: il sé, il senso di identità soggettiva, si costruisce e si consolida ora attraverso la propria immagine sociale e l'autostima che ne deriva. Si fa strada così l'ideale positivistico basato sulla 'oggettività' scientifica, che relega sempre più concetti come anima, spirito, coscienza, sé, nel recinto di una metafisica residuale e obsoleta e tributa alla tecnologia e allo stato totalitario gestito da tecnocrati il potere ultimo sulle coscienze. Ma la nemesi di questa condizione storica è già in atto, quando sulla scia di Schopenahuer e Kierkegaard, Nietzsche introduce i temi della decadenza della civiltà occidentale e mette in crisi l'idea stessa di un soggetto unitario e autodeterminato, mentre Marx attacca l'etica capitalistico-borghese, di cui Freud porterà in luce le nevrosi.
Quello che si affaccia al ventesimo secolo, quindi, è un uomo che ha dovuto rinunciare all'illusione di una unità e coesione della propria soggettività così come all'ideale di un indefinito progresso scientifico, di cui anzi avverte i rischi potenziali in termini di isterilimento e massificazione delle coscienze individuali. Saranno quindi Husserl prima, Heidegger poi, a cercare di ricomporre in un'ottica fenomenologica il binomio soggetto-oggetto attraverso l'esperienza vissuta, l'Erlebnis, che diviene la cifra di una possibile comprensione e conoscenza di sé in rapporto interrelato alla percezione soggettiva del mondo esterno. Il soggetto heideggeriano fonda i suoi significati esistenziali all'interno di una dimensione storica che definisce il suo orizzonte di senso, ma non più - come suggeriva l'idealismo kantiano - in modo ontologico e categoriale a-priori. L'individuo può allora accettare consapevolmente, con un atto di matura responsabilità, il dramma dell'esserci (Dasein) nella sua condizione primaria dell'essere-gettati-della presenza, e così porsi di fronte alla realtà in modo autentico. Questa posizione concettuale apre dunque all'atteggiamento ermeneutico che si configura come disciplina dell'interpretazione e sottende una incertezza di fondo nel processo conoscitivo che non può essere saturata con il ricorso a codici prestabiliti e univoche matrici di significato. L'epistemologia si apre così all'infinito campo del 'possibile' e in questo delinea un cambiamento di rotta epocale non solo nel rapporto soggetto-oggetto, ma anche nel rapporto intrasoggettivo, dove una delle polarità viene declinata nella dimensione Altra-inconscia.
In questo breve excursus del pensiero filosofico si osserva quindi non solo come il progressivo ritiro del trascendente e del referente religioso si traduca in un ampliamento a favore di una coscienza soggettiva sempre più basata su aspetti della realtà secolarizzata, ma anche come l'aumento in termini di conoscenza di sé comporti inevitabilmente un effetto di estraneazione: il soggetto, il sé, in generale l'area della coscienza e della declinazione identitaria, si trovano di fronte l'ulteriore impenetrabilità della mente che riflette su se stessa con gli strumenti della sola coscienza razionale. Da qui l'esigenza, sostenuta in primis dall'invenzione psicoanalitica, di un allargamento del campo di indagine dalla coscienza a tutto ciò che è altro da essa e che purtuttavia costituisce il fondamento della mente umana, all'inconscio, all'intima alterità che ci contraddistingue in quanto ultimi rappresentanti della specie Sapiens.
Se in ambito filosofico la coscienza esprime dunque questo tragitto concettuale in modalità apollinea per mezzo del pensiero, sarà invece tutta l'arte del Novecento a dare voce alla componente dionisiaca del sentire rispetto ad un intimo e lacerante grido di dolore, per ribadire attraverso le più svariate forme espressive la condizione dell'uomo moderno e le sue ferite mortali: l'alterità, l'estraneità, la vacuità, la perdita di senso, la solitudine, lo spaesamento. L'Urlo di Edvard Munch (1893) ne è forse la prima rappresentazione moderna attraverso il medium pittorico (così come, mezzo secolo dopo, le tele di Francis Bacon ritraggono una umanità deformata, mostruosa, in cui prevale la cifra di una estraneità aliena ed alienante). Il teatro pirandelliano e quello 'dell'assurdo' di Beckett, di Ionesco, la letteratura esistenzialista di Sartre e Camus e, nel campo musicale, il progressivo utilizzo della dissonanza e poi l'avvento della musica dodecafonica, che ribalta canoni estetici millenari; tutte testimonianze di una drammatica emorragia di senso che ha minato agli albori del secolo appena trascorso la moderna coscienza umana. Opere divenute icone universali della condizione esistenziale dell'uomo moderno - o dovremmo oggi piuttosto definirlo 'post-moderno', in assonanza con una certa recente terminologia di matrice sociologica - e di quella insopprimibile vertigine della mente di fronte all'angoscia di una alterità che qui sembra proporsi come una assenza stessa di forma e di sostanza, un progressivo svuotamento di senso del mondo e delle cose fino ad esaltare la propria inconsistente corporeità e vacuità, in uno scenario piegato, alterato, distorto, quasi liquido - corrosivo - che minaccia di penetrare dal di fuori, invadere il 'soggetto', e infine discioglierlo, annullarlo…
In tale scenario la psicoanalisi, dicevamo, si è posta fin dal principio, un secolo fa, l'arduo compito di accelerare quella svolta epistemica che potesse condurre l'individuo ad una visione 'integrale' di se stesso, più obiettiva e realistica, sganciata dai retaggi della trascendenza religiosa e filosofica, attraverso l'assunzione del discorso con l'altro-da-sé e con tutto quanto eccede rispetto ad un assetto identitario delimitato e racchiuso nella propria lucida coscienza morale e razionale. Essa si è proposta quale strumento conoscitivo ed operativo della ferita di senso dell'uomo moderno, impegnandosi di suturarla attraverso la "cura" del sintomo e con il ricorso ad una dia-logica in cui venisse privilegiata proprio la dimensione problematica ed estraniante del soggetto, quindi in certo senso - e qui sta la novità rispetto alle pur molteplici forme di trattamento psicologico-psichiatrico dell'epoca - facendo affidamento su quella regione interdetta della psiche che fino allora si era cercato di tenere a bada e di rendere meno devastante col ricorso alla farmacologia, a periodiche cure idroterapiche in stazioni termali e nei casi più gravi alla contenzione manicomiale. Così, quando al principio del suo lavoro di psicoanalista, presta attenzione ai 'vaneggiamenti' delle isteriche oltre che alle loro mirabolanti contorsioni 'ad arco riflesso' osservate nelle cliniche psichiatriche del tempo; o quando pubblica L'interpretazione dei sogni (1899) e cede completamente il campo all'immagine onirica - l'alterità per eccellenza nel pensiero positivista di fine Ottocento - e alla sua potente capacità espressiva (tematica che sarà poi ripresa dai movimenti dadaista e surrealista degli anni Venti); oppure quando, ne Il perturbante[6], individua nell'Unheimlich quel sentimento di attonita inquietudine di fronte al 'non familiare', Freud sta dando voce e corpo a questa oscura dimensione parallela della psiche che si manifesta attraverso le pieghe occulte della ragione e della vita di veglia.
A proposito di quest'ultimo scritto, dove le dimensione dell'alterità e della estraneità dell'inconscio e del rimosso emergono in maniera nuova ed originale vestendo i panni del 'doppio' e del 'sosia', il carattere perturbante (unheimlich) dell'esperienza attuale è strettamente associato alla sua pregressa familiarità (heimlicheit[7]) che ha però nel tempo subito un processo di rimozione, fino al punto di perdere l'aggancio con la memoria cosciente e la tonalità intima e rassicurante del già noto. Il risultato, come sappiamo, è una esperienza ambigua ed inquietante, di turbamento soggettivo per la difficoltà o l'impossibilità di codificare affettivamente lo stimolo esterno (oggetto, situazione o persona) dotato di una tale caratteristica. Questa ambivalenza perturbante, in cui il fondamentale sentimento di una chiara identità soggettiva viene momentaneamente oscurato, si presta infatti alla perfezione nel delineare in maniera viva e palpitante il profilo di una dimensione inconscia che si esprime attraverso una intima estraneità, di una alterità intrapsichica e 'strutturale' che è specchio di ogni successiva attribuzione di alterità verso il mondo esterno e verso gli altri. E tale meccanismo è il prototipo - diremmo - di quell'atteggiamento fondativo della coscienza razionale che consiste nella distinzione tra un dentro e un fuori, tra un me e un non-me, tra soggetto e oggetto.
Anche C.G. Jung, per limitarci all'altro 'padre fondatore' della moderna scienza dell'inconscio, introduce nelle sue teorizzazioni il concetto di una alterità costitutiva della psiche - che può essere in parte progressivamente integrata in un processo di 'individuazione' - distinguendola in inconscio personale e collettivo. La sua poetica ed alquanto incisiva definizione di "Ombra"[8] ben rappresenta in termini archetipici la dimensione inconscia personale caratterizzata dalla somma delle sue 'negatività' costitutive (rappresentazioni rimosse, elementi sfavorevoli e funzioni psichiche non sviluppate della personalità). Possiamo quindi pensare alla psicoanalisi nei termini di una scienza della alterità (se di scienza si può parlare, oggi che le declinazioni della 'verità narrativa' e del post-costruttivismo hanno progressivamente spostato il baricentro psicoanalitico verso il piano ermeneutico[9], oppure se sia meglio considerarla al pari di una professione di fede in chiave laica) i cui cardini concettuali, da sempre, si sono primariamente articolati sul binomio identità/alterità e sul riconoscimento della funzione centrale di legame svolta dalla coscienza nell'arduo tentativo di una migliore integrazione possibile dei contenuti inconsci.
Il tema portante dell'identità e del suo rapporto con l'alterità si snoda attraverso tutto il percorso della riflessione psicoanalitica, attraverso un sempre maggiore riconoscimento alla dimensione inconscia-Altra quale luogo depositario della autenticità profonda del soggetto. Basti pensare alla visione teorica di J. Lacan in particolare, dove si afferma il primato non della coscienza, bensì dell'Altro nella strutturazione della vita psichica, in quanto luogo di trasmissione dei significanti linguistici: il soggetto lacaniano è 'parlato' dal 'discorso dell'Altro' poiché è nell'inconscio - egli dice - che si esprime il Logos[10]. Fino ad approdare alla metafora bioniana del 'cambiamento catastrofico'[11], cioè dell'implosione di un precedente assetto del pensiero che può generare nuove forme di pensabilità sia soggettive che epistemologiche o scientifiche. Momento cruciale di tale passaggio è la possibilità per la mente di tollerare il disorientamento e il disancoramento da posizioni consolidate nel tempo ma ormai isterilite e prive di una prospettiva 'aperta' e interagente col mondo circostante, e al contempo una spinta autenticamente conoscitiva che consenta di accostarsi all'altro-da-sé ma soprattutto all'Altro che risiede in noi.
Nella stanza di analisi la pratica, com'è noto, consiste nel ricreare attraverso il setting - la cornice imprescindibile che mette in scena nel qui ed ora la rappresentazione di sé dell'altro, del paziente, fornendogli le coordinate spazio-temporali dove poter far confluire i suoi vissuti e le sie memorie - quel meccanismo di decostruzione, traduzione, trasformazione e ricostruzione del senso per mezzo della funzione interpretativa, che si dispiega nella struttura dialogica dell'evento e nella reciprocità che si instaura tra analista e analizzando e che la sostiene. La possibilità del cambiamento, dell'insight che ordina in una nuova gestalt una certa configurazione interna che attraversa i piani cognitivo, affettivo, emotivo, sensoriale, etc. …, deriva dalla congiunzione epifanica di elementi diversi, eterogenei, fino a quel momento lontani o dispersi, che vengono catturati e filtrati all'interno di quella matrice di significato, rappresentata appunto dal setting, dove è possibile focalizzare, ri-nominare e ri-sperimentare le cose della propria vita, o nominarle e sperimentarle per la prima volta. E tutto ciò alla presenza di un testimone, l'analista, che rimanda costantemente la cifra identitaria dell'altro-da-sé, e nel contempo promuove quell'avvicinamento necessario alla propria alterità in una continua dialettica giocata sulle note del riconoscimento-disconoscimento transferale di ciò che è proprio, di ciò che è dell'altro, di quanto ci appartiene, di quanto non ci appartiene più o non ci è mai appartenuto.
Viene qui anche in mente - per libera associazione! - l'immagine freudiana, memorabile, del bambino che gioca col rocchetto pronunciando il famoso "o-o-o(fort)-da"[12], che rappresenta la modalità in cui il bambino accede ad una prima capacità di simbolizzazione attraverso il gioco, riuscendo così a legare l'angoscia della ripetuta assenza della madre presentificandola 'come se' fosse il rocchetto che egli lancia e riporta a sé tirandone il filo subito dopo. Affinché ci sia gioco, cioè una attività adattativa ed evolutivamente fondamentale per la psiche, e non una semplice allucinazione attraverso la ripetizione seriale dell'atto, occorre che previamente il bambino abbia istituito la fondamentale distinzione tra sé ed altro e riconosciuto la separatezza dall'oggetto materno, che quindi si sia abbozzato e messo in opera quel processo di costruzione di sé che oscilla instancabilmente tra i due poli del binomio identità/alterità sotto la spinta del desiderio che è, come ci ricorda Lacan, sempre desiderio dell'Altro[13], da intendersi cioè sia come desiderio di possedere l'Altro nella sua indeclinabile infinitezza costitutiva, sia nel senso di desiderare ciò che l'Altro desidera (il famoso desiderio 'mimetico' di cui tanto ha scritto René Girard.[14])
Più che costruzione di sé, tuttavia, il processo psicoanalitico si pone, per fini terapeutici non meno che conoscitivi, come decostruzione di una identità 'cristallizzata' nella nevrosi che, in quanto basata su rappresentazioni di sé disfunzionali e ripetitive, impedisce il raggiungimento di un più evoluto e maturo equilibrio tra identità ed alterità, che consentirebbe invece al soggetto una maggiore libertà esistenziale e di pensiero. L'equilibrio identitario, in altri termini, appare per sua natura instabile e precario e necessita per il suo buon funzionamento di un dinamismo che senza soluzione di continuità lo rapporti al polo dell'alterità interna ed esterna. Solo in questa compresenza è possibile il cambiamento del sé in senso evolutivo e lo sviluppo di una modalità esistentiva nel complesso centrata sull'inclusione piuttosto che sull'esclusione dell'Altro. Ed oggi la stessa psicoanalisi, in quanto scienza della alterità, o di frontiera, è sollecitata ad entrare in un rapporto di collaborazione sempre più stretto con le altre discipline confinanti, quali la filosofia, l'antropologia, la semiologia, le neuroscienze, per arricchire i propri paradigmi epistemici e consentire un allargamento ed approfondimento delle proprie ipotesi operative ed interpretative, poiché è proprio in questa area di intersezione tra diversi punti di vista sull'uomo che è possibile rinvenire nuove conoscenze e nuovi stimoli culturali. Dal registro interno a quello esterno, infatti, la funzione psicoanalitica rimane intatta, in quanto alla base di qualsiasi processo conoscitivo si riscontra un rapporto e, se vogliamo, un incontro di identità tra loro diverse, nella accezione ampia del termine (quindi non solo soggettive, ma culturali, sociali, etc. …) all'interno di una peculiare esperienza emotiva.
L'importanza di mantenere una tensione interna funzionale al confronto tra istanze diverse dell'essere, come tra un dentro e un fuori, viene ribadita anche da queste parole di Jean Pierre Vernant, che si riallacciano alla cultura mitologica e ad una visione dell'umano in costante rapporto con le sue determinanti archetipiche:
"Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo incognito, ove si rischia - confrontati a ciò che è altro - di scoprirsi senza "luogo proprio", senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo "dentro" rassicurante, turrito, stabile e questo "fuori" inquietante, aperto mobile, i Greci antichi lo hanno espresso sotto forma di una coppia di divinità unite e opposte. Hestia ed Hermes. Hestia è la dea del focolare, nel cuore della casa. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all'altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade dove guida il viaggiatore, quanto Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case. Divinità che si oppongono e pure sono indissociabili. È infatti all'altare della dea che, secondo il rito, sono accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti da lontano. Perché ci sia veramente un "dentro", bisogna che possa aprirsi su un "fuori", per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell'Altro, l'uomo, infatti, è un ponte"[15].
In realtà, l'Occidente ha sempre avuto bisogno dell'altro per costruire e definire una propria identità, tenendolo al di là dei propri confini. Oggi però è proprio dall'area filosofica che giungono nuovi stimoli rispetto alla riflessione sull'identità/alterità, attraverso i concetti affini di estraneo ed estraneità; la riflessione sull'estraneità è infatti speculare a quella sull'identità e anzi l'una questione non può eludere l'altra. Il contributo di B. Waldenfels, per esempio, raccoglie la tradizione fenomenologica francese e tedesca (Merleau-Ponty, Husserl, Levinas, Derrida, Ricoeur) coniugandole in una visione organica che si caratterizza per i costanti rimandi alla sociologia, alla psicoanalisi, all'etnologia ed antropologia, alla linguistica, come anche all'arte e alla letteratura. L'apporto concettuale di Waldenfels si inserisce così nel dibattito culturale contemporaneo intorno al concetto di estraneità (Fremd), che è divenuto oggi progressivamente una categoria sempre più centrale, poiché riflette quei cambiamenti socio-culturali intervenuti nelle nostre società moderne e derivanti dai fenomeni dell'immigrazione, del progressivo superamento dell'idea di frontiere e di barriere, delle contaminazioni transculturali, del mercato globale. In questa visione è quindi possibile osservare una molteplicità di forme diverse dell'estraneità, che vanno dal polo 'privato', centrato sul soggetto e declinato nelle sue valenze psicologiche e corporee, fino al polo 'pubblico' o sociale, caratterizzato dal rapporto allargato con l'altro e gli altri in un'ottica intersistemica.
Nel nostro mondo globalizzato sta accadendo una svolta epocale rispetto alla concezione dell'estraneità per come essa era concepita fino al recente passato. Se ieri l'estraneità intrasoggettiva per eccellenza, l'inconscio, bussava in modo sempre più forte e pressante alla coscienza dell'uomo moderno così da venire accolto (almeno in teoria!) nell'empireo scientifico-culturale del secolo ventesimo, oggi a bussare alle nostre porte sono 'gli stranieri' extracomunitari in cerca di un posto dove vivere, un lavoro, una casa, in numero sempre crescente, ciò che modifica di necessità l'antica dinamica basata sull'accoglimento in terra propria dello straniero. Oggi il pensiero più progressista, multiculturale e multietnico, ci dice che occorre condividere lo spazio proprio, 'interno', con lo straniero, con l'altro, così come con 'il diverso' (qualsiasi specificazione tale termine includa), ma in realtà ciò non ripropone che il confronto atavico con quelle dimensioni dello psichismo umano da sempre soggette a operazioni di delimitazione-protezione (con gli inevitabili associati fenomeni di scissione-proiezione-negazione, etc. …) di un 'proprio-interno' da contrapporre ad un 'estraneo-esterno', in quanto tali dimensioni, e i relativi vissuti, sono coessenziali e in relazione reciproca.
Per Waldenfels, la categoria di Fremd ha in realtà uno spessore terminologico-concettuale che supera quello della sua corrente traduzione (straniero); qui Fremd è utilizzato infatti in opposizione a tutto quanto risulta proprio, privato, familiare, fino a delineare il sentimento di estraneità riferito al vissuto soggettivo del sé in relazione alla corporeità ed alle sue sensazioni, come anche rispetto alla lingua parlata. Da questa estraneità del sé il discorso si allarga poi alla dimensione intersoggettiva laddove l'ineliminabile distanza dall'altro rimane la cifra di un rapporto interiore ma anche spaziale dove il sé occupa un suo preciso ruolo e risponde di volta in volta alle sollecitazioni provenienti ora dallo sguardo, ora dalla parola, ora dal desiderio dell'altro. Se per Husserl l'estraneo consiste "nell'accessibilità di ciò che è originariamente inaccessibile", la posizione di Waldenfels sottolinea la sua non derivabilità rispetto al 'proprio': l'estraneità non si identifica cioè con un carattere secondario ma riflette ciò che risiede ab origine nel 'proprio', che anzi forza in maniera violenta espropriandolo e provocandone una alterazione. In questo quadro l'estraneo, in quanto 'forza primigenia', è e deve rimanere tale, cioè 'non appropriabile' né omologabile alla logica identitaria; solo così è possibile preservarne il carattere 'sovversivo' e il suo statuto originario di alterità. L'estraneità viene a connotarsi dunque come momento di espropriazione e destabilizzazione per cui, diversamente dall'assunto husserliano, non si potrà rendere l'estraneo accessibile attraverso l'omologazione al 'proprio', così come mediante alcuna preordinata strutturazione di senso.
Lo sforzo teorico di Waldenfels è dunque orientato a mettere in risalto - e nel contempo a cercare una possibile mediazione tra - il carattere di inaccessibilità originaria della dimensione di estraneità e un possibile pensiero che possa rendere accessibile (al senso, alla coscienza) qualcosa che originariamente non lo è, e tutto questo senza tradirne l'intima natura che si sottrae a qualsivoglia operazione di traducibilità. Una simile possibilità potrebbe consistere dunque soltanto in una 'presa indiretta', differita, cioè in una comprensione ritardata, così come accade per la fenomenologia dell'inconscio, che diviene sondabile solo a posteriori (il concetto freudiano di Nachtraglicheit) e attraverso i suoi 'derivati' (le pulsioni che danno forma al sogno, all'acting, al lapsus, etc. …). Waldenfels parla infatti di una 'insuperabile asimmetria della relazione di estraneità', nel senso che "…le relazioni d'estraneità, quali relazioni vissute, non sono mai completamente simmetriche. In tali casi, l'estraneità non consiste nel fatto che qualcosa ha due lati ma che X differisce da Y e Y differisce da X, cioè che una si sottrae all'altra di modo che l'asimmetria non possa essere superata, ma piuttosto soltanto moltiplicata. Nessun interprete può rettificare tale situazione, visto che anch'egli proviene da un versante soltanto, anche nel caso in cui diventi di casa nell'altro."[16]
Se dunque qui il problema di fondo si specifica nel come accogliere l'estraneità-alterità senza ridurla all'identità, altrettanto centrale è lo svelamento di una retorica, presente da sempre in qualsiasi approccio epistemico (psicoanalisi compresa) alla problematica dell'altro-da-sé, che sottende l'implicita volontà di una sua integrazione e annessione da parte del 'proprio': "Il paradosso della scienza dell'estraneo sta nel fatto che quanto più essa riduce il proprio oggetto - cioè riduce l'estraneità tra le culture - tanto più essa annienta se stessa, a meno che il logos della scienza non si modifichi a tal punto da garantire lo spazio all'estraneo senza annullare del tutto la sua estraneità. Questo conflitto con l'estraneo per l'estraneo, scrive Waldenfels, è ancora irrisolto."[17]
E in chiusura, possiamo riportare una espressione presente nella prefazione di 'Estraniazione della modernità' dello stesso autore, che rovescia in modo copernicano e un po' provocatorio l'assunto della citazione di P. Terenzio Afro in apertura a questo scritto, e che racchiude anche il senso di un possibile diverso approccio al tema in oggetto: "Se a qualcuno nulla di umano potesse mai risultare estraneo, a costui sarebbe estraneo l'umano stesso".
F. M.
Note.