Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologie
C‘è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I,4
Ci fu un tempo in cui tra l’uomo e il suo ambiente non c’erano cesure, così come non ve n’erano tra l’uomo e il suo stesso corpo: ancora ‘animalesco’, l’uno era totalmente anche l’altro, senza barriere e gli istinti sintonizzati con la natura guidavano il suo vivere e conducevano al suo morire. Il salto quantico nella vita socializzata, quindi la cultura, quindi ‘la civiltà’, appaiono grazie ad una originaria operazione disgiuntiva, ad una prima differenziazione che fonda le diversità e contrappone un dentro e un fuori, un sé e un non-sé, e poi l’uno all’altro…
L’ultimo grande scollamento tra mente e corpo è invece relativamente recente nella cronologia temporale. Potremmo rinvenirla nella cultura greca classica, quando con Platone si pongono le basi filosofiche di quello che sarà il tracciato del pensiero della moderna umanità (quella, per intenderci, che da duemila anni si staglia sullo sfondo storico e culturale dell’Occidente). Che il corpo, il nostro corpo ‘vissuto’ e ‘sentito’, sia da allora il grande escluso, ce ne accorgiamo appunto subito dopo il battesimo platonico ufficiale, che impresse al pensiero quel percorso basato essenzialmente sulla contrapposizione tra l’hyperouranios, il ‘mondo delle idee’, e la physis, il mondo fisico della natura, riuniti dalla concezione di una ‘psyché - anima’ già ‘partigiana’ del primo e staccata di fatto dal secondo. La psyché platonica sembra considerare il corpo alla stregua di un simulacro tombale, un carcere che la imprigiona e che la limita nel suo tentativo di raggiungere le altezze vetiginose dell'idea. Nella filosofia platonica, infatti, solo l'anima ha in sé la facoltà di intravvedere e cogliere il mondo delle idee; il corpo – si dice – non sa nulla di tutto ciò e pertanto non può giungere alla ‘Verità’. Nel Fedone, ad es., Socrate argomenta sull’immortalità dell’anima e sulla sua preesistenza rispetto al corpo ricavandole dall’idea dell’uguale in sé riferito alle forme eterne, forme cioè che precedono la discesa nei singoli corpi individuali e nelle svariate manifestazioni della materia. Allorquando si ufficializza l’identificazione tra verità e idea, dunque, si prepara quella ‘fuga dal corpo’ che si tradurrà in una sua marginalizzazione crescente e nelle successive distinzioni assiomatiche tra anima e corpo e, soprattutto, tra bene e male.
Questo ‘impianto teorico’ è ripreso, sostenuto e perfezionato dal Cristianesimo, che rafforza la scissione spirito-idea/materia ed assegna al corpo il ruolo dell’agnello sacrificale in vista di un oltremondano regno di Dio, proiettato nel futuro: il corpo, per poter ‘rinascere alla vita eterna’, deve essere purificato e sacrificato ab altare Dei. Esso ‘incarna’ di fatto il negativo, ricettacolo del Male del mondo e le sue sensazioni sono quindi fatte oggetto di riprovazione, inibizione e conseguente ferreo controllo. ‘Il Verbo cristiano – come ci ricorda S. Giovanni nel suo Vangelo – era in principio presso Dio’. E il corpo ne fu allontanato…
Quando, millecinquecento anni dopo la vulgata biblica e le sue interpolazioni da parte dei primi Padri della chiesa, Cartesio distingue tra res cogitans e res extensa, assegnando al cogito del puro intelletto la potestà unica e sovrana dei domini dell’anima razionale, il solco tra corpo e mente è ormai irrevocabile e si prepara così il terreno alla nascita dell’Età dei Lumi, che sancisce anche la nascita di un uomo pienamente identificato con il suo Ego, la cui attività intellettuale è il faro che illumina il senso delle cose e ne orienta le scelte nel mondo.
Bisognerà quindi aspettare le Critiche kantiane dell’ideologia illuministica e l’emergere della cultura Romantica per riportare ‘il corpo’ al cospetto delle divinità, con la sottolineatura del sentimento e della sensibilità estetizzante, aspetti che fondano una visione sacrale, patriottica, libertaria della vita ed una ideologia centrata sull’individualismo.
Già con K. Marx si comincia a parlare dell’alienazione dell’uomo occidentale stretto dalle logiche politiche ed economiche del capitalismo; la mercificazione della vita umana sottoposta allo sfruttamento capitalistico ne allontana la sua dimensione più intima e vera. Ma siamo ormai alle soglie del XXI secolo e i tempi moderni aprono uno scenario caratterizzato da enormi progressi scientifici e del campo medico, dove l’attenzione si sposta sempre più dalla ormai logora concezione del corpo umano come mero catalogo di meccanismi riflessi a quella di un sistema olistico e integrato in cui corpo e mente interagiscono in sintonia.
Quando in seguito S. Freud osserva ne L’Io e l’Es (1923) che: “L’Io è anzitutto una entità corporea … Non una mera superficie, ma la proiezione di una superficie”, siamo già arrivati ad un recupero ‘ufficiale’ del corpo e del corporeo, che la psicoanalisi attraverso l’Inconscio e la nuova psichiatria di matrice fenomenologica-esistenziale con i concetti di inter-soggettività, di Esser-ci della presenza, di autenticità vs inautenticità, ripropongono in primo piano per la comprensione dell’individuo e del suo mondo di significati. La filosofia fenomenologica husserliana ha elaborato tesi antitetiche rispetto alla filosofia platonica e a quella cartesiana in riferimento al corpo ed al corporeo: al corpo-oggetto (Körper), reificato, semplice ‘cosa tra le cose’ nel piano fenomenico, essa contrappone il corpo-soggetto (Leib), vivente e intenzionale, attraversato da sentimenti che lo rendono unico e peculiare. Esso trascende i confini del Körper e trae vita e alimento dal confronto dialettico col mondo. Ci avviciniamo così alla modalità di intendere il corpo ed il corporeo quali elementi fondanti il senso stesso della Presenza, dell’Esserci, e le sue declinazioni di significato nel rapporto tra soggetto e mondo. Come ricorda M. Merleau-Ponty, il corpo non è solo ‘del mondo’, ma esso ‘abita il mondo’; parlare di un corpo che si dischiude al mondo significa allora trascendere l’idea del corpo chiuso e ripiegato su sé stesso, corpo-prigione dello spirito, e immergerlo invece nell’esperienza vivente della inter-soggettività.
Nei successivi anni '60 e '70 del secolo appena tramontato, il corpo si ‘libera’ dai condizionamenti ‘borghesi’ con H. Marcuse, l’immaginazione al potere e la beat generation. Ma sembra che oggi, nella nostra società ‘liquida’[1] post/iper-moderna, il corpo abbia subito un’altra – l’ennesima – rimozione, sia stato nuovamente ‘inscatolato’ e reso ostaggio di logiche di consumo dove si afferma sempre più l’equivalenza corpo=merce.
Non è un caso allora se oggi assistiamo a problematiche in cui il corpo ed il corporeo si fanno contenitore ed ultimo ricettacolo di quelle istanze esistentive negate, respinte e forcluse a livello psichico. Il discorso ‘isterico’ di fine '800, che ha avuto in Freud e nella prima generazione psicoanalitica il suo riconoscimento ‘ufficiale’ e la sua consacrazione quale forma psicopatologica par exellence del nuovo secolo, ha da tempo lasciato la scena alle nuove figure della sofferenza psichica, in cui appaiono come centrali disturbi di tipo ‘borderline’ legati all’agito, quadri di frammentazione psichica e problematiche di identità che trovano spesso nella modalità della somatizzazione un canale privilegiato di espressione e nel corpo un ultimo possibile ‘contenitore’ di fronte ad angosce primitive altrimenti ingestibili ed intollerabili (oltre agli attacchi di panico, si pensi anche alla enorme crescita negli ultimi due-tre decenni dei disturbi di tipo anoressico-bulimico, come anche al più vasto fenomeno delle tossicodipendenze).
Dopo questo rapidissimo percorso concettuale, abbiamo forse un angolo di osservazione più ampio per inquadrare la ‘malattia psicosomatica’ nelle sue varie e multiformi espressioni, una esperienza che oggi può allora essere concepita come il rumoroso silenzio del corpo e il luogo in cui esso si sottrae al dialogo con l’altro-da-sé per farsi sintomo: corpo come luogo di congelamento dell’esperienza del divenire, corpo come sepolcro in cui però si agita pur sempre il fantasma originario della vita.
È da questo corpo muto e ferito che ora partiamo per comprendere più a fondo la natura dei cosiddetti ‘attacchi di panico’.
“Dove c’è panico, lì c’è anche Pan…” – dice J. Hillman[2] in un suo famoso saggio, che ripercorre nel suo stile mitologico-archetipico i luoghi concettuali e culturali collegati alla presenza del dio della natura; dal piede caprino e fornito di corna, abitatore delle grotte e delle selve impervie dell’antica Grecia, egli è colui che sotto il sole a picco del mezzodì si attarda a suonare la siringa e sorprende uomini e animali di un sacro terrore che ne sconvolge le membra e ne ottenebra le menti. “Se Pan è il dio della natura ‘dentro di noi’ – continua Hillman – allora egli è il nostro istinto […] La figura di Pan rappresenta la coazione istintuale e nel contempo offre il mezzo mediante il quale la coazione può essere modificata attraverso l’immaginazione […] Quando l’anima è presa dal panico, Pan si rivela con la saggezza della natura. Essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significherebbe perdita dell’istinto, perdita di connessione con Pan…”. Se dunque in questa lettura archetipica il dio-capro rappresenta l’ambivalenza dell’istinto e il suo potenziale destabilizzante per la mente umana, esso esprime anche quella saggezza del corpo che è in connessione col divino e che ne esprime le imperscrutabili geometrie.
Lasciando le vette dell’Olimpo e tornando ad un più prosaico piano del discorso, prima di vedere da vicino cos’è e come si manifesta un attacco di panico, potremmo intanto innanzitutto chiederci se esso sia un fenomeno di natura essenzialmente psicologica oppure neuro-biologica, se alla sua origine cioè vi siano motivazioni legate al vissuto intrapsichico e relazionale oppure cause di tipo sostanzialmente chimico, fattori la cui alterazione produce quelle sensazioni corporee così disturbanti. Ma impostare la riflessione su questa domanda sembra allontanarci dal fenomeno in sé e farci perdere di vista la compresenza di entrambi gli aspetti, che potrebbero invece essere considerati concomitanti anziché antagonisti, nel senso che l’uno alimenta e rinforza l’altro, quindi all’interno di un paradigma di tipo olistico (lo ‘psiche-soma’, anziché il dualistico ‘psiche’ e ‘soma’), in cui il sintomo fisico è simultanea traduzione ed espressione di un vissuto psichico, in questo caso primitivo e mai giunto ad una forma di elaborazione mentale superiore-cosciente, quindi in sostanza non altrimenti rappresentabile dalla mente se non attraverso il codice somatico.
Ovviamente poi, non bisognerebbe ridurre il complesso quadro clinico in esame, che si rivela peraltro in differenti forme di sofferenza psicologica e psichiatrica, ad una categoria psicopatologica ‘pura’ e isolata, come a volte si tende a fare quando la ‘tentazione’ medico-classificatoria prende il sopravvento su una riflessione più consapevole delle innumerevoli dinamiche psicologiche sottese alla formazione di un qualsiasi sintomo. È il caso della ‘etichettatura’ diagnostico-clinica spesso banalizzante offertaci da noti ‘manuali’ di stampo psichiatrico in auge negli ultimi anni, laddove occorrerebbe invece cercare di individuare dei tratti peculiari che possano offrire una sufficientemente corretta lettura in termini esperienziali-fenomenici e psicodinamici, all’interno cioè di un’ottica che predilige l’osservazione di movimenti interni e relazionali sullo sfondo di una concezione sistemica-conflittuale della mente, considerata questa come il risultato di forze e pulsioni antagoniste che si stemperano e trovano un equilibrio intorno ad un oggetto primario di riferimento, le immagini interiorizzate della madre prima e della coppia genitoriale poi.
Fatte queste premesse, notiamo come nell’ultimo ventennio le crisi di panico (o il ‘Disturbo da Attacchi di Panico’ o più semplicemente ‘DAP’ nella letteratura scientifica di derivazione medico-psichiatrica) rappresentino la patologia probabilmente più diffusa e per cui più frequentemente si richiede oggi una consultazione psicologica, soprattutto nella fascia di età compresa tra la tarda adolescenza e la prima età adulta. L’attacco-panico è caratterizzato dall’emergenza improvvisa di manifestazioni somatiche intense e prolungate di natura disturbante e invasiva, con marcate alterazioni dell’equilibrio neurovegetativo che solitamente si raccolgono in un tipico complesso sintomatico tra cui spiccano tachicardia, senso di vertigine, sudorazione, tremori, senso di soffocamento.
La sensazione preminente di chi sta subendo un attacco di panico è quella di trovarsi in una angosciante condizione di quasi-morte, nel tumulto di marasmatiche sensazioni corporee che sembrano bloccare ogni possibilità di pensiero razionalizzante sull’evento in corso e preludere ad un ‘crollo’ definitivo della propria persona.
Statisticamente, nel periodo che precede l’insorgenza della prima vera crisi di panico, i soggetti sperimentano un elevato stato di stress associato a problemi di varia natura che possono interessare ambiti diversi e distanti tra loro (dalla famiglia al lavoro, dalle relazioni sentimentali a frustrazioni rispetto a progetti e aspettative). Tali elementi stressanti sono solitamente sottostimati e più o meno consapevolmente repressi sulla base di un atteggiamento di svalutazione che sembra ricorrente nei soggetti che sviluppano simili disturbi e che li porta ad una erronea valutazione dell’intensità emotiva vissuta in certe situazioni. In altri termini, non sembra esserci una adeguata conoscenza della qualità e natura delle proprie emozioni e quindi delle segnalazioni che il corpo invia in stato di stress sotto forma di sintomi iniziali (stato di tensione, ansia insorgente, iperventilazione, etc.…).
Ciò può portare ad una minimizzazione del quadro generale e ad una speculare sopravvalutazione delle proprie capacità di controllo che invece a un certo punto, nella prima esperienza critica vera e propria, subiscono un grave scacco: la disposizione psicologica iniziale di relativa forza e capacità di controllo subisce una inversione radicale dopo il primo attacco, per tramutarsi in seguito in una sensazione di allarme continuo e di intensa attenzione rispetto ad ogni eventuale sintomo fisico. Il prototipo della crisi di panico, con le valenze disturbanti e angoscianti correlate, ha fatto così la sua comparsa nella consapevolezza del soggetto e da lì in avanti rappresenterà un elemento critico rispetto al senso di sicurezza interno e a quello della continuità intrapsichica. In seguito, in situazioni spesso collegate in qualche modo al ricordo del primo evento traumatico, o anche di frequente contrassegnate dalla percezione soggettiva di mancanza di alternative e di apparenti vie di uscita (p. es. luoghi chiusi ed affollati, ma anche situazioni in cui si devono rispettare certe modalità comportamentali sul momento sentite dal soggetto come limitanti o coartanti, come le attese in uffici pubblici o le ‘file’ nei negozi, che espongono anche allo sguardo degli altri), subentra così l’ansia anticipatoria che di nuovo mette in allerta l’intero organismo che pur sforzandosi di evitare il ripetersi della crisi panica non riesce a controllare adeguatamente il tumulto di sensazioni somatiche disturbanti e il soggetto finisce per vivere una nuova e frustrante esperienza panica, sperimentata sempre più come una perdita di controllo mentale.
Occorre fare attenzione a questo passaggio poiché in tale cambiamento della percezione interna risiede un fattore centrale del disturbo panico; si è verificato cioè un vero e proprio crollo di un ‘dispositivo di sicurezza’ fino a quel momento apparentemente funzionante benché silente, che si identifica con la capacità della mente di fare da contenitore a sensazioni corporee disturbanti associate ad angosce primitive; crollo emotivo il cui unico possibile referente concettuale è per il soggetto l’idea di una catastrofe imminente, quindi la paura di impazzire e/o la percezione della propria imminente morte.
È questo vissuto peculiare e traumatizzante che tende poi a recidivare nel tempo ripresentandosi in modo improvviso e apparentemente senza una chiara logica, ciò che espone il soggetto a sensazioni di impotenza, sfiducia in sé stesso, negativismo, ma soprattutto paura e diffidenza rispetto al proprio corpo, di cui si cerca allora affannosamente di indovinare gli umori e le seppur minime sensazioni ‘strane’ e insolite che potrebbero preludere ad una nuova devastante crisi. Il ‘nostro’ corpo diventa così il depositario ferito di una angoscia senza nome, ma è anche vero d’altro canto che proprio il corpo si fa in tal modo ultimo baluardo di una soggettività allo sbando e ridotta all’impotenza, in cui il senso stesso di identità, di essere un Sé coeso, vacilla sotto le caotiche sensazioni innescate dalla crisi incipiente. Paradossalmente, il corpo ‘traditore’ diviene qui anche l’estremo rifugio e luogo di contenimento di angosce primitive dilaganti e intollerabili dalla mente, che riesce, con la sua irriducibile, ineliminabile e concreta fisicità, a traghettare dolorosamente il soggetto al di là di quel ‘mare in tempesta’ che l’attacco di panico rappresenta.
In questa sede distingueremo due approcci principali al disturbo di panico; uno di tipo cognitivo-comportamentale che prevede sostanzialmente un lavoro di ristrutturazione cognitiva sui sintomi somatici seguita da modalità comportamentali correttive, l’altro di tipo psicodinamico, in cui il focus è centrato maggiormente su dinamiche interne di conflittualità intersistemica e sul loro sviluppo nel tempo a partire dalle prime relazioni madre-padre-bambino e sulla precoce interiorizzazione di tali figure.
In entrambi i casi, se la sintomatologia appare in forma severa è opportuno un supporto farmacologico ad opera di un neurologo o psichiatra, che nello specifico si avvalgono oggi dell’utilizzo di ansiolitici (benzodiazepine) e antidepressivi (inibitori della serotonina - SSRI), attraverso cui è possibile ridurre l’intensità delle manifestazioni ansiose associate ai momenti più critici sia intervenendo in modo diretto che nel lungo tempo.
Se si considera l’attacco di panico in termini di fenomeno multideterminato, in cui cioè intervengono fattori di diverso ordine ed elementi che si intersecano reciprocamente su differenti piani di funzionamento psichico e biologico, si possono – come proposto di recente da alcuni autori di area psicoanalitica[3] – concepire tre livelli principali di intervento: ad un livello inferiore l’azione farmacologica sul sistema neuro-vegetativo, che ne riduce l’azione stimolante e contrasta l’attivazione del sistema limbico; quindi ad un secondo livello, intermedio, la terapia cognitiva che agisce correggendo gli schemi di pensiero disfunzionali mediante strategie di decondizionamento e di ristrutturazione cognitiva; infine, ad un livello superiore, la terapia psicoanalitica, che agisce a livello strutturale sulle configurazioni affettive di base e sulle dinamiche tra mondo interno e relazionale del soggetto.
Ci limiteremo qui ad accennare soltanto ad alcuni aspetti della prima tecnica psicoterapeutica, al solo scopo di far comprendere al lettore cosa in sostanza accade in un trattamento psicoterapeutico cognitivo-comportamentale, approfondendo invece il discorso concernente la psicoterapia psicodinamica-psicoanalitica e la sua concettualizzazione del disturbo panico.
Approccio cognitivo-comportamentale.
In breve, un trattamento di tipo cognitivo-comportamentale è solitamente strutturato in modo da affrontare almeno quattro obiettivi principali: a) esposizione graduale ‘in vivo’; b) ri-etichettamento delle sensazioni somatiche; c) rilassamento e respirazione addominale frazionata; d) ristrutturazione cognitiva delle assunzioni disfunzionali.
La procedura di esposizione ‘in vivo’, solitamente impiegata anche in altri disturbi di natura ansiosa, si pone l’obiettivo di consentire al soggetto di percepire l’oggetto della propria paura in modo controllato attraverso un processo di graduale accostamento al sintomo e quindi di progressiva abituazione alle situazioni scatenanti. Il ri-etichettamento delle sensazioni somatiche è invece un lavoro di depotenziamento delle sensazioni somatiche disturbanti ed un re-inquadramento delle stesse all’interno di un contesto più realistico e pertanto più gestibile e funzionale. Il rilassamento prevede altresì l’impiego di tecniche di respirazione che hanno la funzione di ridurre lo stato di stress psicofisico agendo in primo luogo sul sintomo di iperventilazione caratteristico dell’insorgenza dell’attacco di panico, inibendolo e infine bloccandolo. La ristrutturazione cognitiva, infine, è l’elemento portante di questa tecnica terapeutica e consiste essenzialmente in un processo di modificazione degli schemi mentali e di pensiero collegati all’evento stressante in un feedback continuo con le sensazioni corporee. Il soggetto prende così coscienza dell’inadeguatezza di alcuni schemi mentali inappropriati ed è portato a modificarli in senso adattativo e realistico.
In questo, come in altri trattamenti di tipo cognitivo-comportamentale diretti ad altre forme di disturbo psicologico, va infine ricordato il ruolo dei ‘compiti per casa’ (gli ‘homeworks’ nella letteratura clinica anglosassone), che consistono in veri e propri esercizi pratici da svolgere nel quotidiano e che riassumono e verificano i diversi momenti dell’intervento terapeutico svolto in seduta.
Approccio psicodinamico-psicoanalitico.
Dal versante terapeutico di tipo psicodinamico, il disturbo panico viene inquadrato nei termini di un fenomeno psicosomatico in cui la valenza psichica rimane sostanzialmente scissa ed apparentemente esclusa da ulteriori possibilità di elaborazione[4]. In tal senso quindi la psicoterapia si pone come il luogo in cui sia possibile far convergere tutte quelle coordinate esistenziali, esperienziali, relazionali, passate e presenti, che si rivelano collegate al vissuto di panico, riuscendo così a connotarle di nuovi significati in rapporto alla propria storia individuale, che viene così osservata e vissuta in modo potenzialmente trasformativo.
La meta della terapia diviene allora la costruzione di un rapporto analitico in cui il paziente possa gradualmente sperimentare in un ambiente contenitivo e stabile – connotato cioè da una valenza diversa da quella spesso disfunzionale relativa alle prime relazioni con gli oggetti primari – una nuova modalità di rapporto con l’altro e con sé stesso caratterizzata da una maggiore fiducia e orientata verso una crescita di sé.
Al contempo, l’attenzione costante per la relazione di transfert imprime alla relazione analitica quella specifica qualità emotiva ed affettiva la cui opportuna elaborazione può consentire un superamento di modalità di funzionamento psichico non adeguate e carenti dal punto di vista della continuità somato-psichica (secondo la direzione progressiva dell’asse sensazione-emozione-pensiero[5]) e permettere un recupero di vissuti fino a quel momento scarsamente o affatto traducibili dal registro somatico in quello verbale.
Già Freud nel suo lavoro ‘Legittimità di separare dalla nevrastenia un preciso complesso di sintomi noti come nevrosi d’ansia’ (1894) aveva operato una fondamentale distinzione tra due tipi differenti di angoscia: le ‘psiconevrosi’, in cui è presente un contenuto psichico sullo sfondo di un conflitto inconscio che viene somatizzato, e le ‘nevrosi attuali’, quelle forme ansiose acute in cui non si riscontrano fattori psicologici quanto piuttosto semplici fenomeni fisiologici di ‘accumulo’ libidico, che non riuscendo ad essere debitamente scaricati producono a livello psichico delle sensazioni di angoscia. Questa prima lettura freudiana, che potrebbe dare adito ad una interpretazione ‘a-conflittuale’ della genesi dell’attacco di panico (cioè derivata da meccanismi pulsionali non attinenti la dinamica del conflitto psichico, centrale nella teoresi psicoanalitica), verrà poi di fatto rivista e in parte modificata dallo stesso Freud, che tenderà a porre sempre più in relazione l’esperienza della angoscia con la presenza di conflitti psichici inconsci.
Con il progressivo affermarsi nella teoresi psicoanalitica del modello delle relazioni oggettuali, che si pone come snodo importante rispetto a quello pulsionale, sarà in seguito soprattutto la corrente kleiniana a sottolineare il ruolo delle angosce primitive e dei meccanismi di identificazione proiettiva nella regressione temporanea a stadi schizo-paranoidei[6], di cui anche il disturbo di panico sarebbe espressione: nella crisi acuta l’Io del soggetto vivrebbe una condizione di doppia aggressione, dall’interno e dall’esterno, da parte di oggetti parziali a valenza distruttiva, ciò che accomuna l’attacco panico a una specie di momentanea morte psichica per implosione e sgretolamento dell’Io e perdita delle sue identificazioni positive con oggetti interni buoni.
Se D. Winnicott[7] parla delle angosce di frammentazione e persecutorie del bambino quale conseguenza della incapacità di un loro contenimento da parte dell’oggetto materno, M. Mahler[8] parla di ‘panico organismico’ in stretta relazione a processi regressivi con punti di fissazione nella fase di separazione-individuazione (per cui le alterazioni del legame simbiotico nelle fasi evolutive precoci predisporrebbero a ulteriori esperienze paniche correlate ad angosce di disintegrazione-annichilimento). Il ‘terrore senza nome’ di W. Bion[9] sarebbe allora proprio questo stato di angoscia primaria del bambino che la mente della madre non è riuscita ad accogliere ed elaborare per potergliela in seguito restituire in una forma ed una intensità più tollerabili.
In un’ottica più recente e vicina alla posizione bioniana basata sulla mente come ‘contenitore’, potremmo dire che la crisi di panico compare con una certa frequenza in soggetti che non hanno potuto interiorizzare e fare propria quella funzione materna che si identifica con un luogo mentale in cui poter riversare l’angoscia primaria; questi bambini si sono sentiti ‘non contenuti’ dalla figura materna ed hanno realizzato di dover crescere in fretta e ‘dover fare tutto da soli’, strutturando ed alimentando così una immagine di sé idealizzata e rinforzata, ma perciò implicitamente esposta al rischio di un sempre possibile crollo in termini di autostima e di delusione rispetto ad una tale immagine irrealistica.
In un’ottica più recente e vicina alla posizione bioniana basata sulla mente come ‘contenitore’, potremmo dire che la crisi di panico compare con una certa frequenza in soggetti che non hanno potuto interiorizzare e fare propria quella funzione materna che si identifica con un luogo mentale in cui poter riversare l’angoscia primaria; questi bambini si sono sentiti ‘non contenuti’ dalla figura materna ed hanno realizzato di dover crescere in fretta e ‘dover fare tutto da soli’, strutturando ed alimentando così una immagine di sé idealizzata e rinforzata, ma perciò implicitamente esposta al rischio di un sempre possibile crollo in termini di autostima e di delusione rispetto ad una tale immagine irrealistica.
In seguito ad accadimenti di vario genere ed importanza, così come a fatti apparentemente banali del quotidiano, ma che in qualche modo possono essere simbolicamente collegati ad un certo sfondo di significato, o infine di fronte alla necessità evolutiva di confrontarsi prima o poi con il proprio ruolo nella società, col mondo del lavoro, con l’idea stessa della morte (e della propria morte, ciò che avviene spesso proprio nell’uscita dalla fase adolescenziale), il soggetto può sperimentare in modo nuovo e inquietante la ri-emergenza di vissuti emotivi primitivi di forte intensità che vengono così sentiti come catastrofici a causa della assenza di un ‘filtro’ psichico adatto, di un contenitore mentale che possa raccoglierli e tollerarne la presenza esplosiva e caotica in attesa di poterli pensare in modo più evoluto, quindi distinguerli e nominarli (odio, rabbia, gelosia, invidia, etc.…).
Su questa linea di pensiero, un ulteriore contributo alla comprensione del disturbo panico viene dai recenti apporti teorici di psicoanalisti che, pur senza focalizzarsi sullo specifico ambito delle crisi di panico, si sono interessati soprattutto alla articolazione precoce del rapporto corpo-mente ed alla originaria traducibilità dei registri fisico-corporeo e mentale-simbolico. La teoria di A.B. Ferrari, p. es., centrata sul concetto di Oggetto Originario Concreto[10], descrive in modo originale questo passaggio dalla fisicità caotica e marasmatica del neonato alla costruzione di un iniziale spazio mentale reso possibile dalla presenza di un ambiente materno facilitante e disponibile (nella accezione winnicottiana) che svolga al contempo quella funzione protettiva di ‘schermo antistimolo’ (S. Freud, 1924) tra il bambino e il mondo, come anche quella primaria funzione di ‘reverie’ (W. Bion, 1962), che consentono all’agente delle cure materne di assolvere vicariamente la funzione di mente del bambino, per poi permettergli di sviluppare gradualmente la propria e acquisire così man mano la capacità di interpretare le sensazioni sgradevoli e disturbanti e trovare risposte adeguate. L’attività psichica primaria si organizza quindi intorno a uno specifico organo di senso eletto a integratore di tutta l’esperienza sensoriale (il ‘coordinatore psichico’); spazio che diventa funzione della propria nascente psichicità e consente di mettere progressivamente in ombra la fisicità, realizzando cioè una ‘eclissi del corpo’.
È però opportuno ricordare, con le parole dello stesso Ferrari, che: “…la dimensione corporea è l’aspetto originario, originale e concreto, che racchiude la specificità di ognuno ed è l’oggetto per eccellenza della mente … essa costituisce ciò che l’individuo percepisce come la propria personale sorgente di vita e la propria personale sorgente di morte” (Op. cit., 2003). In altri termini, è la originaria fisicità che – pur se inconoscibile nella sua essenza ultima da parte del soggetto – costituisce quella matrice su cui va ad inscriversi il più profondo senso d’identità che produce continuità e coerenza del sentimento di essere se stessi. Nel momento quindi in cui si instaura nell’esperienza soggettiva la contrapposizione tra mente-soggetto e corporeità-oggetto (o, come dice l’autore, tra ‘Uno e Bino’), si realizza così quella condizione interna che determina la possibilità di uno sviluppo autonomo della personalità nel suo complesso e che consente alla dimensione psicologico-simbolica di estendere una funzione di contenimento e di controllo sulla dimensione della fisicità.
La mente si distanzia così progressivamente dall’esperienza corporea e lo sviluppo della attività simbolica consente al bambino di esercitare un crescente controllo sull’ambiente interno ed esterno, aumentando via via il senso di identità e coesività del proprio sé che diviene sempre più affidabile in contrapposizione alle variabilità esterne.
Ma tale condizione è pur soggetta ad una sempre possibile reversibilità; come sappiamo, si possono infatti verificare nel corso della vita situazioni in cui, a causa di eventi interni, esterni o relazionali (traumi, lutti, abbandoni, etc.…), la componente della fisicità torni ad esercitare una forte pressione sul sistema psichico che di conseguenza viene risospinto a precedenti modalità di funzionamento caratterizzate da una minore capacità di simbolizzazione e di contenimento di sensazioni ed emozioni intense e primitive e pertanto connotate in senso disturbante ed angosciante per la propria stabilità psichica. In tali circostanze il corpo assume agli occhi della mente e del sistema di coscienza centrato sull’Io delle connotazioni negative; esso si svela ‘all’improvviso’ dinanzi alla mente nei termini di un oggetto incontrollabile e ‘traditore’ (come sembra di vivere appunto in occasione del primo attacco di panico), una potenziale fonte di pericolo che non supporta più l’implicita sensazione di unità e di senso della personalità nel suo complesso, ma si fa fragoroso interprete della avvenuta rottura di un precedente equilibrio interiore, di uno scivolamento della mente nell’esperienza caotica e destabilizzante di acuti sintomi corporei che sembrano preludere ad una imminente catastrofe.
Altri autori, infine, sulla scia della concezione kouthiana che focalizza l’attenzione sulle vicissitudini della struttura del Sé (p.es. D.B. Diamond, 1985, op. cit.), pongono l’accento proprio su una fondamentale fragilità del Sé in termini di non acquisizione di uno stabile senso di identità soggettiva, una fragilità ‘strutturale’ che rappresenterebbe la causa della regressione a stati pre-coesivi, mentre solitamente tale eventualità sarebbe scongiurata dalla presenza di strutture difensive compensatorie di tipo idealizzante (quindi il crollo emotivo dovuto all’attacco di panico, come anche ad altre forme di psicopatologia acuta di tipo ansioso, sarebbe da collegare a problematiche narcisistiche e ad una struttura psichica che si mantiene nel tempo in una modalità non sufficientemente coesa). Clinicamente, infatti, l’esigenza del paziente con crisi di panico riguarda soprattutto la costruzione di un senso di Sé stabile e permanente ed il sintomo panico si accompagna sempre ad un difetto di identità che tradisce un fallimento del Sé[11], costretto ad identificarsi con un oggetto idealizzato che ha sostituito la conoscenza della propria autenticità emotiva e affettiva e quella del proprio corpo più pienamente vissuto.
Centrale nella relazione terapeutica diviene allora la dimensione della reciproca fiducia, quindi in termini intrapsichici la possibilità per il paziente di introiettare un oggetto buono e avviare processi di identificazione con una figura stabile che in termini realistici possa conferire un adeguato senso di protezione e rassicurazione nei momenti più critici, in modo tale da promuovere una maggiore autonomia da quegli aspetti di sé idealizzati e onnipotenti, ancorati a dinamiche difensive e di evitamento dal confronto realistico con le proprie umane difficoltà e i propri limiti. In tal modo il problema centrale della perdita di controllo mentale e quindi della perdita di fiducia nel funzionamento del proprio corpo – che diviene nel corso della malattia quasi una estensione estranea del Sé, imprevedibile nelle sue reazioni paniche – si riduce gradualmente e parallelamente alla costruzione di una relazione salda e maturativa col terapeuta, in cui aspetti antichi di vulnerabilità, di frammentazione e di conflittualità interna ed esterna possono essere comunicati ed osservati in modo nuovo e potenzialmente trasformativo.
Per comprendere meglio come una tale insufficiente coesione interna del Sé possa determinare il successivo sviluppo di problematiche di tipo panico, volgiamo ora lo sguardo a due brevi storie cliniche, che riflettono la dinamica evolutiva di due percorsi esistenziali caratterizzati dalla ri-emergenza di primitivi processi disfunzionali di interiorizzazione di figure genitoriali ed antichi vissuti relazionali di natura conflittuale.
Quando Anna chiese un primo colloquio psicologico per cercare di capire meglio cosa le stesse accadendo dopo circa sei mesi di apparente ‘follia pura’ e di ‘discesa agli inferi’ – come lei la definiva – viveva una condizione esistenziale affettivamente depauperata e ridotta ad una sterile quanto testarda modalità di trincerarsi dietro al paravento della ‘malattia’ panica, vissuta in termini di costante impedimento fisico-organico e limitazione progressiva di quelle che erano state attività di studio e di socializzazione un tempo desiderate e gratificanti. La sua ambizione, in quel periodo ancora sereno in cui le sue giornate trascorrevano tra lo studio e i progetti futuri, era di diventare una giornalista e dopo una laurea e alcuni corsi di perfezionamento, sembrava pronta per tentare il grande salto che l’avrebbe portata a trasferirsi in un’altra città, dove risiedeva il suo ragazzo, di qualche anno più grande, che lì aveva già un impiego. Ma fu allora che accadde un episodio luttuoso che colpì una zia materna, cui la ragazza era molto affezionata, piegata da una grave quanto breve malattia. Dal carattere forte e risoluto, questa zia, divenuta poi una professionista affermata, era stata per lei fin da bambina quasi un modello, ed aveva incarnato ai suoi occhi l’immagine di una donna capace e determinata, in contrapposizione con quella di sua madre, una donna fragile ed insicura che aveva rinunciato ad una sua propria realizzazione professionale quando ebbe il primo figlio, finendo poi per abituarsi ad un ruolo di casalinga insoddisfatta e scontenta di sé.
Il primo episodio di panico si verificò circa tre mesi dopo la morte della zia, in un periodo in cui nervosismo e sfiducia avevano già in parte oscurato l’orizzonte progettuale della giovane, che cominciava ad avere dubbi sulla opportunità di trasferirsi a breve dalla casa dei genitori, dove ancora viveva, nella nuova città e sembrava inoltre aver perso quell’entusiasmo iniziale che l’aveva sorretta durante gli studi e la successiva formazione. Anna si svegliò una notte in preda ad una sensazione di terrore, il cuore che batteva violentemente nel petto, il respiro affannoso, non riusciva a chiamare i genitori per chiedere aiuto; pensò che stesse avendo una crisi cardiaca e sentiva che la sua mente stava perdendo progressivamente il controllo del suo corpo, che ora si imponeva alla sua residua attenzione amplificando le sensazioni disturbanti e precipitando verso quello che paventava come un tracollo finale, un probabile infarto…
Il sudore freddo le aveva imperlato fronte; dopo essere stata per alcuni minuti – un tempo che le era sembrato interminabile – in balia di quell’intensa e improvvisa angoscia, riemerse a se stessa e trovò il modo di calmarsi un po’, facendosi forza con parole di incitamento e di ritrovata fiducia. “Mi dicevo: ‘Dai Anna… è passato, è passato”, e mi veniva in mente la voce della zia, che da bambina in alcune occasioni mi aveva rassicurato, ora dopo una brutta caduta, ora consolandomi dal pianto in seguito a certi rimproveri dei miei genitori… Era come se la mia mente si fosse all’improvviso sfibrata, un tessuto strappato e sfilacciato, che ora cercavo di ricucire e rattoppare alla meglio, ma lo strappo era sempre lì…”.
Da quella notte cominciò per Anna un periodo di crisi ripetute, che nelle prime settimane si presentarono quasi ogni giorno e che la prostrarono al punto che aveva timore di uscire di casa da sola per le usuali attività, costringendola a quella ‘discesa agli inferi’ in cui sviluppò una marcata ipersensibilità verso ogni sensazione fisica ed una conseguente ossessiva vigilanza sul minimo cambiamento umorale percepito dentro di sé, nel tentativo di controllare il riemergere di certi stati d’animo angoscianti collegati con i primi episodi critici. Quando infine decise di farsi aiutare con una psicoterapia, dopo aver gestito alla meglio le crisi coi farmaci per alcuni mesi, si presentò al primo incontro con una grande e bella borsa di pelle, che attirò da subito la mia attenzione perché, con un gesto delicato e solenne, la mise in bella mostra sul ripiano della libreria dietro le sue spalle: “Quella era la borsa di mia zia – spiegò tempo dopo, quando le sue condizioni migliorarono e tornò a fare progetti importanti per il futuro – e volevo iniziare la terapia con qualcosa di suo, che mi facesse sentire protetta… Adesso è un po’ in realtà che non la uso, mi sembra anche troppo grande per quello che mi serve… In fondo, ora ho il mio nuovo e pratico zainetto… Che ne dice? Può andare, no…?”.
***Mauro aveva avuto la fortuna, come lui diceva, di poter lavorare subito dopo il diploma. Era un chimico, impiegato nel laboratorio di analisi di una grande azienda già da diversi anni. Persona molto razionale e scrupolosa, si divideva tra questa attività e alcuni hobby, che erano però divenuti col tempo vere e proprie attività parallele, cui si dedicava con grande impegno misto ad un entusiasmo quasi infantile. Una di queste era la corsa su lunghe distanze e partecipava spesso a gare regionali cui si preparava con accurati allenamenti. “Correre – diceva – mi fa sentire come una macchina sportiva, potente e resistente, che macina chilometri…”.
A detta di tutti, era sempre stato un bambino molto calmo e responsabile; anche quando, all’età di 4 anni, i genitori erano stati via per diversi mesi all’estero per lavoro; la nonna, cui era stato affidato, lo ricordava intento nei suoi giochi e raramente piangeva. All’età di 10 anni era considerato un alunno modello: educato, diligente, non prendeva parte ai consueti scherzi e motteggi tra compagni. Poi le scuole superiori, il diploma, il lavoro in azienda. Aveva quindi sposato qualche anno dopo una coetanea, conosciuta nella sua stessa scuola e con la quale era già da allora fidanzato.
Quando Mauro si rivolse alla psicoterapia avevano avuto il loro primo figlio da circa 6 mesi, ma nonostante fosse atteso e desiderato, questo lieto evento aveva gradualmente segnato per lui in modo irreversibile il passaggio ad una condizione di malattia ansiosa contrassegnata da diverse e intense crisi di panico. Un paio di volte era rimasto bloccato nell’auto, sotto casa, la mattina mentre stava per andare al lavoro, incapace di muoversi e respirando a fatica all’idea del traffico del centro. Un’altra volta fu costretto a rifugiarsi nel bagno di un locale pubblico dopo una breve passeggiata con la moglie ed il figlio di pochi mesi, aspettando che l’angoscia subitanea che l’aveva assalito scemasse e il battito impazzito del cuore ritornasse alla normalità. Negli ultimi tempi aveva trascurato ogni altra attività fisica e sviluppato una percezione esasperata delle sue sensazioni somatiche disturbanti, cercandone di prevenire l’erompere improvviso, insieme a modalità quasi ossessive di controllo che si estendevano anche ad aspetti del quotidiano, come l’accresciuta attenzione nell’evitare possibili luoghi insalubri per il figlio piccolo o eventuali trasmissioni di malattie virali. Il motore dell‘auto sportiva’ mandava segnali di imminente rottura…
Nel lavoro terapeutico, emerse sempre più chiaramente come Mauro sin da piccolo fosse stato sollecitato a crescere troppo in fretta, costruendosi un Sé precocemente adulto e sopperendo da solo ad antiche carenze con il riferimento ad un’immagine idealizzata di sé stesso simile ad un meccanismo quasi perfetto. Quando nacque il figlio si verificò in lui un crollo improvviso di questo antico dispositivo difensivo e si fece strada invece l’angoscia relativa al pensiero della estrema vulnerabilità di quella nuova vita e della responsabilità assoluta che ora egli sentiva di avere nei suoi confronti, quindi il dovere di proteggerla da ogni sorta di pericolo proveniente dal mondo esterno.
L’unica risposta gli venne allora dal corpo, cioè da quella dimensione che – di fronte alla temporanea capitolazione della mente, sopraffatta dall’angoscia – fungeva ora da precario e instabile contenimento alla sua nuova condizione esistenziale di padre.
Solo un lungo periodo di chiarificazione e confronto su tali tematiche riuscì in seguito a consentirgli di vivere in modo meno drammatico la sua paternità, parallelamente alla possibilità, nuova per lui, di poter più liberamente riconoscere ed esprimere a parole vissuti passati e presenti emotivamente difficili e talora angoscianti. Il suo percorso terapeutico passò quindi per la necessaria conquista del senso di fiducia in sé stesso, al di là delle costruzioni idealizzate di un tempo, scoprendo così per la prima volta la possibilità di coniugare in modo più realistico fragilità e vulnerabilità con fermezza e determinazione, senza escludere e rinnegare aspetti importanti della sua vita emotiva.
F. M.
Bibliografia.
Note.